Inizialmente Jackie (con la regia di Pablo Larraín) era stato pensato come una miniserie per HBO riguardo i quattro giorni compresi tra l’assassinio di John F. Kennedy e la sua sepoltura mostrati dal punto di vista della First Lady. Il progetto si è poi evoluto diventando un film con Natalie Portman nel ruolo della protagonista. Ed è proprio lei la colonna che regge tutto l’apparato.
Il film si pone come obiettivo quello di delineare la figura incredibilmente complessa e sfuggevole della moglie del presidente assassinato rendendo una ricostruzione dei fatti il più possibile accurata. Ma quello che Jackie in realtà ci mostra è come non esista una ricostruzione accurata dei fatti, e che, se anche esistesse, non sarebbe importante. Alla gente non interessa la vera natura degli uomini, si accontenta della rappresentazione che viene data loro. La First Lady spodestata da un colpo di proiettile sa bene che suo marito da tempo ormai agli occhi della gente comune non era più un uomo ma un simbolo, questo è un inevitabile effetto collaterale che potere e fama hanno.
Da qui le pretese della donna con funzionari e membri del congresso per un funerale in pompa magna con carrozze e cortei a piedi in diretta TV. Vuole che il marito sia ricordato in eterno dal mondo e non faccia la fine di James Garfield e William McKinley, altri presidenti assassinati durante il mandato di cui nessuno sa nulla. Suo marito non ha vinto la guerra civile come Lincoln, non potrà essere ricordato come un grande presidente per le sue azioni, è necessario quindi trovare un altro modo per rendere indelebile la sua memoria. Jackie sa che in fondo i fatti non importano, quello che conta è l’immagine che la gente ha dei fatti. L’impressione è più importante dell’essenza. Tutto è una grande cerimonia, uno show messo in piedi per gli spettatori. E lo stesso vale per la sua figura.
Natalie Portman fa un lavoro spettacolare proprio in questo: nel mostrarci i vari volti di Jackie Kennedy. Per prepararsi al ruolo ha fatto uno studio accuratissimo basandosi su filmati d’epoca, registrazioni di interviste e biografie e questa meticolosa preparazione traspare cristallina dallo schermo. La postura, la rigida eleganza, l’accento, le espressioni, nulla è fuori posto. Natalie dà vita a tutte le maschere che la moglie del presidente indossava con disinvoltura: la sposa perfetta e devota con la voce sottile per la televisione, la donna decisa con la sigaretta in bocca che gioca come un gatto che acchiappa un topo con il suo intervistatore, la vedova fragile tra pillole e alcol e vestiti e gioielli, la madre incerta con i figli ancora troppo piccoli per capire, la donna fredda e calcolatrice che si presenta alla nazione con gli abiti ancora intrisi del sangue del marito e infine la Jackie che forse più si avvicina alla sua vera essenza: un’anima in pena fragile e vulnerabile che ha dovuto seppellire due figli e un marito.
Senza Natalie Portman questo film non reggerebbe il proprio peso. La sceneggiatura non funzionerebbe, la regia nemmeno, tutto crollerebbe miseramente. Ma per fortuna c’è lei, e quando la vediamo con il viso trasfigurato dal dolore, che si strofina la faccia sporca di sangue con una salvietta abbiamo l’impressione chiara di trovarci davanti ad una delle scene che rimarranno per sempre nella nostra memoria. Insomma: Jackie più che essere un ottimo film è un’ottima prova della bravura della sua attrice protagonista, che spicca nella cornice accettabile ma certo non perfetta che il film mette sullo schermo.