C’è qualcosa che non funziona in Ghost in the Shell, film diretto da Rupert Sanders e tratto dall’omonimo manga giapponese. Lo spettacolo è vistoso e le sue due ore scarse scorrono senza mai annoiare, ma, una volta finito, non si può fare a meno che sentire un po’ d’amaro in bocca.
La colpa non è certo di Scarlett Johansson, che ormai siamo abituati a vedere nei panni di eroina sexy di film d’azione (Lucy, Vedova Nera per citarne un paio). La produzione è stata aspramente accusa di whitewashing per la decisione di scritturare un’attrice occidentale nel ruolo di un iconico personaggio giapponese, ma Scarlett dimostra senza dubbio di avere il carisma necessario per il personaggio. Tuttavia sarebbe stato auspicabile per una volta vedere un’attrice orientale nel ruolo (Rinko Kikuchi ad esempio).
Il Maggiore che porta in scena la Johansson è terribilmente intrigante e l’attrice gioca in maniera magistrale con la sua fisicità (e che fisicità) riuscendo a comunicare con il corpo l’essere contemporaneamente umana e robot del suo personaggio. Ogni movimento sullo schermo, a partire dalla camminata fino alla più minima inclinazione del volto, ha un qualcosa di strano, quasi alieno, che rende assolutamente credibile il suo essere macchina creata dall’uomo con all’interno un’anima umana.
L’aspetto visivo del film è assolutamente spettacolare. È stato fatto un ottimo lavoro nell’ambito del production design, con costumi, make-up, location e prop bellissimi e curati nei minimi dettagli. Gli effetti speciali tolgono il fiato, anche se in alcune scene appaiono un po’ grezzi, dando la sensazione che si stia guardando più un videogame che un blockbuster hollywoodiano. La città stracolma di giganteschi ologrammi pubblicitari è una gioia per gli occhi, le sparatorie e gli inseguimenti sono eccezionali e il tutto è ben orchestrato senza risultare mai eccessivamente chiassoso o confuso.
Allora cosa non funziona in questo Ghost in the Shell? La cosa più importante: la sceneggiatura. Tutto è trattato con eccessiva superficialità e le tematiche con profondissimi risvolti filosofici che il materiale di base fornisce sono rese con un misero discorsetto finale in voiceover. “La nostra più grande virtù è l’umanità”. Tutto lì. Il film risulta quindi essere un gioiellino sfavillante ed esteticamente fenomenale, privo però di un forte contenuto. Uno shell privo di ghost.