Tutto è nato dal ticchettio di un orologio. L’idea del tempo come mezzo per plasmare la storia e la concezione del tempo come risorsa preziosa da conservare con cura. Più che essere un film di guerra, Dunkirk infatti è un film sul tempo. Del resto tutto è partito dal ticchettio di un paio di lancette.
Se ne trova traccia ovunque nella sublime colonna sonora di Hans Zimmer che in questo film ha il ruolo di sopperire alla mancanza di dialoghi, diventando voce narrante della vicenda. Lo annunciano gli unici tre testi a schermo che ci introducono al film. Terra, una settimana. Mare, un giorno. Aria, un’ora.
Quello che Nolan mette in scena è un trittico scritto sulla base di vigorosi principi musicali e rapporti matematici. Le tre vicende si intrecciano, avvolgendosi su se stesse, incastrandosi una nell’altra o sfiorandosi appena, in una danza in cui il montaggio si eleva a forma d’arte. E pensare che le sue intenzioni iniziali erano di girare il tutto senza alcuna sceneggiatura.
Mostrandoci un avvenimento storico di portata imponente attraverso la prospettiva limitata e stanca di tanti piccoli uomini Nolan sveste la storia da ogni sua falsa patina di epicità. Nel suo film non c’è spazio per onore, valore, gloria. Niente discorsi roboanti, declamazioni ispirate, cari a casa in pensiero, alte sfere politiche in subbuglio. Solo tanti piccoli uomini, che, come formiche impotenti, lottano contro il tempo per la loro sopravvivenza.
Nolan mette in scena la banalità del male, l’assoluta insensatezza dell’accanimento dell’uomo contro sé stesso, la stupidità della guerra. Ci mostra tutto questo senza mai metterlo sullo schermo, limitandosi ad alludere. Come le lancette di un orologio non sono solo pezzi di metallo in movimento, ma sono il tempo stesso, così il significato di Dunkirk è infinitamente più della somma delle sue parti. Il risultato è un film scarno, potente, destabilizzante e immenso.